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DIARIO DI MELISSA COOPER, Ex fidanzata di Donald Carter

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ILENIA_UTR
view post Posted on 20/9/2007, 11:26




DIARIO DI Melissa Carter scritto interamente dall'interprete del personaggio
AUTRICE : JESSICA


ATTENZIONE : Descrive la tormentata vita dell'ex fidanzata di un ex tossico dipendente e agli ambienti piu' difficili e negativi in cui si e' ritrovata a frequentare fin dai tempi adolescenziali e al suo problema con il mondo della droga.



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INTRODUZIONE


Mi chiamo Melissa Cooper, per gli amici Mel, o Coop, giusto per abbreviare.Tengo un diario da quand'ero bambina, scrivere è sempre stata una delle mie piu' grandi passioni e mi ha sempre aiutato a capire meglio me stessa, un momento in cui mettevo a nudo ciò che sentivo dentro. Scrivere per me fungeva (e funge tutt'ora) come valvola di sfogo nei momenti peggiori della mia vita. E, ve lo assicuro, non sono stati pochi.Mi scuso fin da subito per il linguaggio che userò che, lo so, non èdei piu' signorili; e per il contenuto di queste pagine, in cui racconterò la mia vita e la mia esperienza con la droga senza peli sulla lingua e con parole crude e schiette. Quando si parla di droga, non c'è tanto da ricamarci sopra.

Inizia tutto come una figata, ti senti onnipotente e invincibile; i piu' assennati ti ti dicono: smetti con quello schifo, ti rovinerai il cervello, tu gli ridi in faccia, pensi che nulla più possa scalfirti.

Sbagliatissimo.

Credo che l'uso di parole dure e crude per parlare di queste cose possa essere istruttivo, in un certo senso. Chi leggerà tutto questo credo ci penserà due volte, prima di iniziare a suicidarsi. Perchè questo, è questo che è veramente la droga.

Un suicidio.

Killing me softly
Vedete, perfino Aretha Franklin lo sapeva.

 
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view post Posted on 16/2/2008, 01:55
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CAPITOLO 1.



Sono nata 26 anni fa in un quartiere della periferia di Londra. Era il 5 Agosto del 1980. Mia madre, Alexandra Black, era una ventenne dai lunghi capelli mossi e castani, sono sempre stata affascinata dai suoi capelli. Da piccola non riuscivo ad addormentarmi se non potevo toccarli un po’ prima, arricciarli, arrotolarli attorno alle mie piccole dita.

Era una ragazza particolare, una hippy che a 14 anni se n’era andata di casa e aveva vissuto come una vagabonda con il suo gruppo di amici, guadagnandosi da vivere ricamando cappelli e vivendo alla giornata. Mi ricordo che quando passava per le stanze della nostra casa, camminava svelta e leggera come un’ombra, solo i campanellini ai suoi polsi, con il loro tintinnio, tradivano la sua presenza.

Era perennemente fuori casa, allestiva bancarelle per le strade dove esponeva i suoi stravaganti cappelli, incontrava gli amici, passeggiava per le strade di Londra rimpiangendo la campagna dov’era cresciuta e tormentandosi come una farfalla in gabbia. Mia madre era uno spirito libero, il ruolo di casalinga/moglie/madre non le si addiceva per niente.

Aveva conosciuto mio padre, Gregory Cooper, due anni prima di avere me, gironzolando per l’Inghilterra con i suoi amici. Avevano bucato una ruota del loro furgoncino e mio padre, per loro fortuna, passava di lì proprio in quel momento. Aveva 2 anni in piu’ di mia madre e lavorava come meccanico in un’officina di moto. Se la sapeva cavare, quindi, con i motori, e in un baleno era riuscito a sistemare il guasto al motore. Quella sera stessa, mia madre dormì a casa sua. Casa che diventò la nostra, quella in cui nacqui io.

Si trattava di un miniappartamento all’undicesimo piano di un triste palazzone, le stanze erano piccole e nella mia mancava perfino la finestra. Entravi, e ti trovavi in questo minuscolo salottino con un divano alla parete e la TV, passavi poi per la cucina e di lì ti trovavi davanti a 3 porte: il bagno, la stanza dei miei e la mia stanzetta.

Mio padre se n’era andato di casa a 18 anni, trovando lavoro in quell’officina e affittando quell’appartamento proprio davanti all’officina. Mia madre, per amore suo, aveva abbandonato il suo stile di vita vagabondo vivendo con lui e dandogli una mano ad arrotondare continuando il suo lavoro con i cappelli. Era una donna molto particolare, fantasiosa e creativa, ma anche poco affidabile, lunatica, volubile, ‘una foglia nel vento’, amava definirla mio zio.

Già, mio zio.

Casper Cooper era il fratello maggiore di mio padre, quando nacqui io aveva 28 anni. Lavorava anche lui nell’officina, anche se la sua vera passione era scrivere. Mi ha fatto conoscere lui la letteratura, mi ha trasmesso lui questa passione.

Casper è stato per me padre, madre e fratello maggiore al tempo stesso. Lui c’era quando mia madre svolazzava via avvolta nel suo profumo di mughetto, lui c’era quando mio padre diventava scorbutico e imbronciato con una bottiglia in mano, lui c’era quando io restavo da sola e piangevo in quella piccola, enorme casa desolatamente vuota.

Aveva un carattere pacifico e amabile, guardava a tutto con dolcezza, non l’ho mai sentito alzare la voce. Stare con lui mi rilassava, mi sentivo serena, al sicuro. Le sue braccia erano il mio riparo nei momenti bui, quando tutto andava storto, lui era lì pronto a consolarmi e a darmi la forza che mi mancava.

Lui inoltre ha aiutato i miei anche nelle spese per allevarmi. Sono arrivata per sbaglio, loro non avrebbero voluto un figlio, erano troppo giovani, ma qualcosa andò storto e mia madre si prese incinta di me. Aveva 19 anni.

Quando nacqui, non c’erano abbastanza soldi per pagare tutte le cose che servono ad un bambino: pappe, seggiolino, pannolini, giocattoli, eccetera. Mio zio ( il quale, anche se io ancora non lo sapevo, arrotondava il suo stipendio all’officina con il lavoro di spacciatore) prese a cuore subito questa bambina caduta fra le braccia di mia madre quasi per caso. Mi allevò con lo stesso amore che avrebbe riservato per quel figlio che avrebbe tanto desiderato ma che non arrivò mai. Mio zio era sterile. Per lui, ero io la sua bambina.

Mia madre, dal canto suo, cercava anche d’impegnarsi allevandomi al suo meglio, ma spesso sentiva tutto questo come un peso troppo grande sulle sue spalle, e allora le passava la voglia di fare qualsiasi minima cosa, si chiudeva nella stanza da letto dei miei e si metteva a ricamare i suoi cappelli, lasciandomi nella mia stanzetta. Mio padre era perennemente a lavoro, servivano molti soldi per pagare l’affitto ed allevare me.

Non do colpe ai miei genitori se mi è successo ciò che mi è successo, d’altronde nemmeno la loro era una situazione facile, cosa avrei potuto pretendere? Mio padre si ammazzava di lavoro per assicurarmi una vita dignitosa. Mia madre era una donna particolare, ma mi voleva bene.

I primi anni non andarono male, noi tre tiravamo avanti come meglio si poteva cercando di gettare le basi per costruire una famiglia normale, con il suo appartamentino pulito e curato e soldi a sufficienza per poter vivere degnamente e magari assicurarmi pure un futuro decente.

Tutto precipitò poco dopo che ebbi compiuto 6 anni: mio nonno, il padre di mio padre, morì.

 
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view post Posted on 27/2/2008, 13:56
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CAPITOLO 2.



La mia nonna paterna era morta di parto alla nascita di mio padre. Di fondo, mio padre era un uomo molto fragile e si attaccò morbosamente a mio nonno, Anthony, l’unico genitore rimastogli. Anche lo zio Casper voleva molto bene ad Anthony, ma lui e mio padre avevano un rapporto davvero speciale: mio nonno veniva a trovarci ogni giorno, lo aiutava ad arrivare a fine mese quando le cose si facevano difficili, lo aveva aiutato a smettere di bere nei suoi momenti peggiori. Per Gregory, mio padre, la presenza del nonno era un qualcosa di indispensabile, un punto di riferimento che lo faceva vivere piu’ serenamente.

Quando morì, di cancro ai polmoni a causa del troppo fumo, mio padre sprofondò nella depressione piu’ nera. Era il 1986 e io avevo appena iniziato le elementari. Mio padre non voleva piu’ alzarsi dal letto la mattina per andare a lavorare; ricordo che a volte quando entravo in cucina per bere un po’ di latte prima di andare a scuola, lo trovavo sprofondato sul divano con una lattina di birra in mano, completamente sbronzo già a prima mattina.

Aveva ricominciato a bere. Un sacco di soldi li buttava via così, comprando bottiglie su bottiglie; inizialmente mia madre faceva finta di nulla, chiusa nel suo mondo. Credo che avesse molta paura. Paura di come stavano andando le cose, paura di soffrire, paura di mio padre. Quando esagerava con l’alcool diventava scorbutico, irascibile, intrattabile.

Quante sere me ne stavo rintanata nella mia cameretta tappandomi le orecchie per non sentire i loro litigi, le bottiglie rotte, i piatti infranti… una volta un moto di rabbia mi animò, scesi dal mio letto e armandomi di coraggio mi diressi in cucina… la scena che trovai mi restò impressa nella mente. Mia madre che fermava con le mani le braccia di mio padre, che le aveva appena tirato uno schiaffo. Sentii le lacrime bruciarmi gli occhi mentre mio padre mi urlava di tornarmene in camera mia.

Purtroppo quelle scene, a lungo andare, iniziarono a diventare la routine e io non riuscivo a concentrarmi a scuola, con nelle orecchie il rimbombo delle bottiglie rotte a terra con violenza da parte di mio padre e l’eco degli urli di mia madre.

Quando uscivo di scuola e m’incamminavo per tornare a casa a piedi, vedevo le mamme delle altre bambine andare a prenderle con un sorriso e mi sentivo un nodo alla gola. Avrei voluto vedere anche la mia lì, invece sapevo che lei era a casa a ricamare cappelli con le lacrime che le scendevano lungo le guance mentre mio padre guardava la cronaca sportiva alla TV, con un bicchiere di vino rosso scadente sul tavolo della cucina.

In particolare, nella mia classe c’era una bambina che mi incuriosiva particolarmente. Forse in un certo senso l’invidiavo, ma il mio non era un sentimento cattivo, non provavo risentimento verso di lei. Avrei solo voluto essere lei, per una settimana magari, nulla piu’. Staccare la spina, togliermi di dosso quella situazione difficile.

Lei era un po’ l’icona di ciò che avrei voluto essere io. Si chiamava Ivy Mercer, era una bambina di un anno piu’ grande di me, coi capelli biondi e ricci e gli occhi azzurri. La trovavo semplicemente perfetta. La riconoscevo per il ticchettio che faceva quando camminava con le sue decollété bianche. Fantasticavo su come sarebbe stato bello fare la hostess di terra e indossare le decollété bianche di Ivy Mercer. Mi piacevano un sacco questo genere di stronzate, quando avevo 7 anni.

Un giorno incrociai la Volvo verde di sua madre, appena fuori da scuola. Con i libri della biblioteca in mano, pensai di chiedere gentilmente alla signora Mercer se non le dispiacesse darmi un passaggio fino a casa, sì sto in quel palazzone in Canterbury Street. Lungo il tragitto verso il mio quartiere le avrei detto quanto ammiravo sua figlia. Perché l’ammiravo sul serio, Ivy. E poi diciamocelo, mi rendeva verde dall’invidia.

Mi piacevano così tanto i suoi pantaloni di velluto a coste. Quando uscì dall’atrio, vidi che aveva la fronte corrugata come se fosse tutta concentrata su chissà cosa. Non so se avesse mai sentito suo padre spaccare bottiglie di whisky sul pavimento della cucina.

Suo padre ai miei occhi era una specie di divo della tv. Faceva parte di uno schieramento politico ed era piuttosto famoso lì nella periferia. Sua madre da giovane era stata una modella, però io la trovavo ancora bellissima. Si allungava le ciglia col mascara e quando le sbatteva mi stupivo che non restassero incollate.

Sapevo tutto della sua famiglia perché ogni volta che il giornale locale pubblicava uno di quegli articoli della serie “I VIP della nostra città”, c’era una grande fotografia della famiglia Mercer nella loro casa bene arredata.

Rimase a guardare Ivy uscire dalla scuola. Colsi l’immagine della signora Mercer che scompigliava comprensiva i capelli di Ivy, come per dire: E’ quasi fatta, tesoro, presto sarai fuori di qui, da questa schifosa scuola pubblica di periferia.

La settimana seguente seguii Ivy nel parcheggio tutti i giorni. Indugiavo, senza sapere bene cosa volessi dirle. La guardavo soltanto, mentre aspettavo che la venissero a prendere. Saliva sulla Volvo verde col suo allegro zainetto di tela sulle spalle e baciava la madre sulla guancia. Forse le diceva: quella è la bambina che ruba le matite durante la ricreazione. Credo che diventerà una vandala o qualcosa del genere.

Restai sulla panchina fuori dalla scuola, aspettando che uscisse anche lei. Sulle mie ginocchia era appoggiato Lord Jim. Dovevo scrivere una ricerca di inglese. Sottolineare sul libro le parole che parlavano del tema a) dell’uomo contro la natura; b) dell’uomo contro l’uomo. Era un lavoro difficile, da ragazzine piu’ grande. La mia insegnante dicevo che ero particolarmente dotata, quella ricerca serviva per inserirmi nel gruppo di potenziamento. Ma non ero tanto in vena di studiare, a dire la verità. Chi se ne frega di Lord Jim. Avevo passato tutto l’anno a leggere le avventure eroiche di Beowulf e Amleto e Robert Plant. Zio Casper mi teneva in braccio e mi faceva ascoltare i Led Zeppelin, mentre con l’altra mano portava alla bocca una grossa sigaretta, che piu’ avanti imparai fosse marijuana. Mi raccontava col suo modo dolce e rassicurante le commedie di Shakespeare, le grandiose leggende celtiche. Era il mio insegnante preferito, lo zio Casper. Ma quel giorno ne avevo abbastanza di leggere di vittorie altrui sugli ostacoli della vita, quando la mia mi pareva tanto difficile e insuperabile. Lanciai Lord Jim contro le inferriate della finestra.

‘Ciao, Ivy’ le dissi quel giorno all’entrata di scuola. Mi ero fatta coraggio. Lei abbassò lo sguardo sulla camicetta perfettamente stirata, non sorrise né fece alcun gesto. Come tutte le bambine per bene, non voleva avere niente a che fare con me. Con le mie unghie mangiucchiate e i capelli tagliati male. Nulla a che fare.

In quel momento, vidi arrivare sua madre. La salutai con la mano. Lei indossava una folta pelliccia che mi impressionò un sacco. Per un attimo pensai che fosse qualcosa tipo una regina in incognito. Mi sembrava impossibile che una signora normale potesse indossare una pelliccia. Era qualcosa per famiglie reali.

Alzò lo sguardo su di me. Non aveva la minima idea di chi fossi. Fissò i miei blue jeans. Mi vergognai di averli addosso, capii che probabilmente non li giudicava adatti ad una bambina. Erano ‘da maschiaccio’.

“Conosco sua figlia. Conosco Ivy. Come sta?” esordii. “Sta bene. Impegnata.” fu la sua secca risposta. Il suo modo di fare così duro mi intimidì. Improvvisamente desiderai che si aprisse un varco sotto le mie gambe per sparire di lì. Ma ormai ero davanti alla signora Mercer.

“Dov’è quella scuola dove vuole andare Ivy? Ho sentito dire che vuole studiare poesia, come Sylvia Plath. Conosce Sylvia Plath?” domandai, con l’innocenza dei miei 7 anni. La signora Mercer sembrava quasi offesa. “Certo che la conosco” rispose, sempre dura. “La scuola di Ivy sta a Liverpool”. Sbarrai gli occhi. Non ero mai stata oltre ai quartieri dove ero nata. Andare persino a Liverpool mi sembrava un’avventura fantastica.

“Io… beh, credo che Ivy sia molto fortunata” continuai, imperterrita. La signora Mercer mi guardò strano. Ebbi paura di aver detto qualcosa di sbagliato, inavvertitamente. “Fortunata? Si sta impegnando moltissimo” obiettò.

“Lo so. Cioè, lo so che è intelligente, Ivy. E’ per questo che è fortunata, ad andarsene da questo quartiere del cazzo”. Le parole mi scapparono di bocca. Non volevo essere maleducata, no davvero. Era semplicemente quello che pensavo. La mia voce aveva il tono piu’ candidamente sincero che si possa immaginare.

Non sapevo piu’ cosa dire. Si capiva che la signora Mercer non gradiva il mio aspetto, i miei lunghi capelli spettinati, l’herpes al labbro e le unghie mangiucchiate. Vicino a lei all’improvviso mi sentii timida. Non riuscivo a credere di aver preso in considerazione l’idea di chiederle un passaggio appena pochi minuti prima. Era totalmente fuori discussione. Il modo in cui mi guardava, la collana di perle al collo, la perfetta sagoma delle labbra truccate di rosso; no, proprio non potevo accostarmi ad una come lei.

Beh, volevo solo dirle di portare i miei saluti ad Ivy, dopotutto. Di farle un in bocca al lupo.

“Okay, glielo dirò. Come ti chiami?” chiese, infastidita.

“Io… Melissa.”

“Va bene… Melissa. Riferirò”. Non sorrise o altro, e mi diede un’occhiata eloquente, come se, mentre mi guardava, riuscisse a vedere il taglio sotto ai piedi per aver calpestato i resti di una delle bottiglie che mio padre scagliava contro il muro, l’incarto delle caramelle che avevo rubato al supermercato di fronte infilato negli stivaletti e il fatto che non avessi mai finito il mio compito su Lord Jim.

 
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LA MORTE DEI MIEI GENITORI

Cap.3


Col passare del tempo, la situazione di mio padre con l’alcool non dava cenni di miglioramento, e i suoi rapporti con mia madre erano sempre piu’ tesi.

Quando tornavo a casa da scuola, per pranzo, mi ritrovavo mio padre strvaccato sul divano con la solita birra in mano, mamma chiusa presumibilmente in camera, la tavola da sparecchiare e la mia porzione di pasticcio fredda, perché nessuno si era preoccupato di metterla in caldo per me. Fare i compiti era impossibile, con la tv a tutto volume che papà non voleva assolutamente abbassare e i pensieri che mi tormentavano la testa.

Mi sentivo trascurata, abbandonata. Volevo che le cose fra loro si sistemassero. Volevo vederli felici, perché se loro fossero stati felici avrebbero fatto felice anche me, è così che funziona.

Ma in loro non vedevo mai il bagliore di un sorriso felice. La nostra casa era incredibilmente cupa. A nulla servivono i miei disegni colorati appesi al frigo o il tessuto di un rosso vivace del divano. Si respirava l’atmosfera dell’infelicità, era un qualcosa di palpabile nell’aria.

L’episodio che mi fece nettamente capire come avessimo toccato il fondo fu quando mia madre perse veramente le staffe. Era ora di cena e quello fu il litigio piu’ brutto che ricordi tra i miei genitori.

Quella sera la zuppa sapeva di bruciato; pezzi di bietola nera che galleggiavano nel verde. Sulla zuppiera di porcellana c’erano delle rose finemente dipinte. Fingevo di esserne particolarmente interessata e le fissavo senza distogliere gli occhi, volevo farmi piccola piccola, mentre la tensione nell’aria preannunciava l’ennesima lite fra i miei.

A casa nostra tutto era di seconda mano, tranne i piatti del servizio buono. La madre di Alexandra, mia mamma, li aveva dati ai miei genitori come regalo di nozze, in quei pochi ‘incontri di famiglia’ che fecero insieme.

La leggenda vuole che dopo il matrimonio, celebrato in comune con un gruppo sparuto di amici e ovviamente l’immancabile zio Casper nei panni del testimone di nozze, mia madre avesse cercato di spaccare tutti i suoi regali di nozze. Appena sposati, si erano fatti di acido nella camera d’albergo scelta per la luna di miele. Mio padre aveva cercato di fermarla, ma lei era sotto trip. Pensava che le tazze fossero uccelli che tentavano di volare. Scaraventò la porcellana contro le pareti a cuori rossi. Diceva che i cocci erano stupendi. Le schegge bianche sembrano cigni.

Credo che quella sera, nel nostro appartamento all’undicesimo piano, la sua faccia non fosse molto diversa da quella che aveva dovuto avere in quella famosa notte. Buttò a terra bicchieri e posate e fece volare la tovaglia, urlò a mio padre che era un irresponsabile, un fallito, un immaturo. Al fragore dei piatti rotti a terra si sommavano le bestemmie di mio padre, e le urla di mia madre che quasi perse la voce. Non l’avevo mai vista perdere il controllo così. Lei riusciva sempre a mantenere un minimo di calma. Quella volta no. Quella volta era saltato anche l’ultimo appiglio di normalità a cui mi aggrappavo disperatamente per tenere insieme i cocci della mia famiglia. Non capivo bene il significato di quelle parole dure che mia madre urlò a papà, ma il messaggio che portavano era chiaro: qualcosa fra loro due si era spezzato; qualcosa che non si sarebbe ricucito mai piu’.



Arrivò maggio e questo mi rese un po’ meno infelice, era l’unico mese in cui un timido sole sbocciava fra le nubi grigie di Londra. Era lo splendore della primavera, e nel grigiore del mio quartiere ogni tanto potevo cogliere la bellezza di un piccolo fiore. Tutte queste piccole cose sono sempre state la felicità di un bambino, ma nella situazione difficile in cui mi trovavo non potevo assaporarle come avrei voluto. Quando camminavo per il marciapiede lungo la strada che portava al mio palazzone, mi si attorcigliava lo stomaco perché non volevo entrare in quell’appartamento e trovarmi di fronte la stessa infelice scena. Da quella sera in cui mia madre impazzì, andai sempre a pranzo da zio Casper. Non avevo preso precisamente una decisione. Non ci avevo pensato tu. Lo feci e basta. I miei piedi si fermarono solo davanti la porta della casa di Casper. Con lui mi sentivo al sicuro. Mi faceva sempre qualcosina di buono da mangiare e mi insegnava a pelare le patate e preparare la verdura per il contorno. Mi aiutava a fare i compiti, dopo mangiavo si sedeva accanto a me e mi spiegava la matematica oppure mi leggeva qualche brano della mia antologia. Mi insegnava il significato delle parole che non conoscevo, mi aiutava a colorare la cartina di geografia fatta a mano con la carta da lucido.

La casa dello zio Casper era la mia piccola oasi di felicità. I miei tutto sommato erano contenti che andassi da lui, perché sapevano che lì stavo bene; ma credo che sia stato un dispiacere immenso per loro constatare ormai alla luce del sole il loro fallimento come genitori. Credo che mia madre abbia pianto tanto in quelle notti. Mi dispiace non esser mai andata a baciarla la mattina appena svegliata, non aver avuto l’occasione di dirle quello che nella mia testolina pensavo; pensavo che anche se le cose non andavano tanto bene fra lei e papà, io la trovavo la mamma piu’ bella di tutti, e il mio papi sapeva raccontare le barzellette piu’ divertenti, avremmo potuto farci un sacco di risate insieme, avrei potuto imparare a decorare cappelli, avrei potuto attaccare i bottoni e le paillettes per aiutarla o comprare riviste di motori al papà. Avrei voluto fare un sacco di cose. Il tempo non me lo permise, perché me li strappò via prima che riuscissi a fare qualunque cosa: nel maggio del 1987 i miei genitori morirono in un incidente stradale. Mio padre aveva bevuto, come sempre; erano andati a trovare dei vecchi amici della mamma e, nella strada del ritorno, mio padre si era schiantato contro un muro. Non l’aveva proprio visto. Ci era finito dritto addosso, centrato in pieno. Il cofano e l’abitacolo della macchina praticamente non esistevano piu’. La vidi, la nostra macchina accartocciata su se stessa. E’ un immagine che non mi si toglierà mai dalla mente.

Ricordo perfettamente il momento in cui mio zio entrò nel mio appartamento per prendermi definitivamente con sé. Ero tornata a casa dal rientro a scuola e non avevo trovato nessuno, così mi ero messa a disegnare con le gambe che dondolavano dalla sedia del tavolo della cucina. Quando lo vidi entrare, mi resi subito conto che era successo qualcosa. Non gli avevo mai visto quell’espressione in viso. Come descriverla? Era un misto di dolore e rimpianto, ma soprattutto di partecipazione, partecipazione al mio dolore, a quello che avrei realizzato pienamente quando sarei cresciuta, alla perdita enorme che mi aveva riservato il destino. Dev’essere stato un momento difficilissimo per lui. Come spiegare a tua nipote di non ancora 8 anni che i suoi genitori non ci sono piu’? Che non li vedrà mai piu’? Che è rimasta da sola? Come?

Mi sedetti sul pavimento, a un angolo della stanza, schiacciandomi la testa fra le ginocchia.

Eccomi qua, nella mia casa tranquilla, senza mamma e papà.

Il frigo emise un ronzio.

 
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view post Posted on 26/10/2009, 12:31
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STRALCI DI DIARIO DI MELISSA
Scritti interamente da Jessica.




Edited by LARA__CROFT - 12/11/2009, 19:23
 
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LA PRIMA VOLTA DI MELISSA CON CARLTON
(Esperienza negativa vissuta quando Melissa aveva 13 anni)
Cap. 4





Carlton mi passa l’ennesimo spinello, ormai ho perso il conto. Siamo rimasti solo io e lui, distesi sui sedili posteriori del furgoncino. Gli altri sono tutti in una tenda poco piu’ in la’ a sniffare cocaina. Il sedile posteriore e’ grande come una specie di divano, una tenda giallo ocra fa da “separe’ “ e dei cuscini sono sistemati all’altezza delle nostre teste. E’ largo e si sta comodi. Mi distendo pancia in su dando un tiro allo spinello, chiudo gli occhi, rilassandomi.
“Vaneggiare. Sentirsi un bacio sulle labbra che palpita, come una piccola bestiola”
Volto il viso per guardarlo, il suo profilo perfetto… Il naso dritto, le labbra carnose, gli occhi socchiusi, un ciuffo di capelli biondi e ribelli a coprirglieli. Faccio fatica a mettere a fuoco, la marijuana sta facendo il suo effetto. Gli passo lo spinello, lui apre gli occhi e lo prende tra le dita. Mi guarda, i suoi occhi sono offuscati da un velo lucido che glieli arrossa un po’, sembra che abbia appena pianto. Ha uno sguardo strano. Mi guarda in modo strano. Mi passa una birra, senza pensarci due volte la finisco tutta in un sorso. Faccio altri due tiri dello spinello, la testa mi gira ormai vorticosamente. Riesco appena a capire quello che succede, vedo Carlton gettare fuori dal finestrino lo spinello, poi mi si avvicina con un improvviso fuoco negli occhi. Questa volta non si tratta della droga. E’ il suo sguardo. Fruga su di me, nella mia scollatura, dentro di me. Indosso una canottiera sgualcita lunga fino ai fianchi, aderente al corpo, nera, semplice, senza reggiseno sotto. Porto un paio di pantaloncini neri, ho i piedi nudi. Sono ormai totalmente fatta, sorrido docilmente mentre lui allunga una mano verso di me e allunga il viso, baciandomi. Ma non sono i soliti baci, quelli a stampo, leggeri. No, questo bacio e’ diverso. E’ un bacio strano. E’ un bacio adulto. E’…. passione.
Mi sento un po’ strana. Paura, forse? Il fumo l’aspira tutta, non ho piu’ alcun freno, mi concedo senza ripensamenti, tutto mi sembra surreale, sospesa in una dimensione a meta’ fra la realta’ e il sogno.
E la realta’ mi sorprende sempre. Meglio viverla distorta, assurda, irreale, contorta, meglio farsi fino a star male e non pensare piu’ a nulla.
Carlton e’ su di me, le sue mani mi frugano ovunque, mi sfilano via la canottiera mosse da un’ansia febbrile, il suo corpo mi sovrasta, mi sento improvvisamente piccola, fragile… ho la mente totalmente sgombra, non penso a niente, non capisco niente…i contorni del viso di Carlton ai miei occhi sono cosi’ sfocati, mi sembra di stare su un’instabile pista da discoteca, luci psichedeliche che nascono solo nella mia testa… mi gira tutto e mi aggrappo a lui, mi sembra che se mi reggessi a terra cadrei rotolando a terra.
E’ arrivata la sera, e io sono il suo bottino. Il bottino di Carlton. Come se io fossi gia’ una sua proprieta’ , come se tutto questo fosse un’abitudine e una routine, che Carlton ha voglia di riscuotere. Non voglio essere di sua proprieta’ , non voglio appartenere a nessuno, voglio sentirmi libera, sempre. La mia mente vaga su sentieri tortuosi, formulo pensieri senza senso, sconnessi, alterno l’irrealta’ ai rari lampi di coscienza, la percezione alterata delle cose mi confonde. Non c’e’ tenerezza, nessuna parola tenera, neanche gesti teneri. E’ puramente fisico. Banale.
Potrebbe almeno stringermi forte. Coccolarmi. Ma non c’e’ nulla che vada bene. Nulla che io riesca a capire, nulla che io sappia come affrontare. Vorrei il buio, vorrei non vederlo, vorrei non vedermi, vorrei dormire, vorrei sognare. Carlton sogghigna e mormora qualcosa di incomprensibile alle mie orecchie, mentre con una mano si abbassa i jeans. Guardo le ombre dei nostri corpi stagliati contro le pareti dell’interno del furgoncino col cervello anestetizzato. Seguo le sue mani, docilmente, lo lascio fare, cerco di capire, mi sforzo di essere lucida, ma la marijuana mi ha totalmente intontita. Un solo pensiero, ossessivo: io e Carlton lo stiamo facendo. Facendo facendo… facendo. Cosa? Nulla di piu’ insignificante.
Facendo facendo… facendo. Come se da cio’ dipendesse la mia vita. E’ l’unica cosa che riesco a capire, e mi ci aggrappo svogliatamente, persa in un mondo tutto mio. Una sorta di rito di passaggio destinato a liberarmi, a fare di me una donna. Una fottutissima donna di 13 anni.
Che non avra’ piu’ paura di dire: “Stasera non ne ho voglia” . Perche’ conoscera’ . La sofferenza.
Mi sento cosi’ sola con quel corpo. Credevo di essermi presa una cotta per Carlton. Ora non sono piu’ convinta di niente. Non capisco piu’ niente.
Non e’ romantico un sedile posteriore di un furgone.
Carlton ansima dandosi da fare sopra di me, su di me, contro di me, dentro di me… Chiudo gli occhi mentre cerco di non pensare al dolore, l’unica cosa che percepivo distintamente, e non distorta come tutto il resto. Stringo i denti, forte e orgogliosa come sempre, mi aggrappo a lui, ci accasciamo entrambi, sfiniti.
Non e’ stato bello per niente. Sento male, il dolore mi riporta alla realta’ , per un po’.
Bisogna che lo faccia meglio, mi dico, in un tripudio di stronzate che affollano la mia testa intontita, perche’ non mi rimanga l’impressione di essere una nullita’ , una ragazzina tredicenne inesperta, che non conosce ancora nulla del piacere.
Mi e’ sempre stato detto che la prima volta non e’ mai bella, che non si prova quasi mai piacere; quindi e’ normale. Cio’ che mi e’ mancato di piu’ e’ la tenerezza. Sentir male, non capire niente, essere disorientata, turbata, stare distesa accanto ad un ragazzo sudato e totalmente strafatto, tutto questo posso sopportarlo. Ma l’assenza di tenerezza?
Notte di giugno! Tredici anni! Inebriarsi.
La linfa… champagne che da’ alla testa….
Mi vengono in mente questi versi, scritti per me, dallo zio Casper.
Ecco, e’ andata. Posso guardarmi allo specchio, mettere da parte i miei sogni, la poesia di cui amo circondare ogni momento, sotto questo aspetto da dura, questo bisogno di bellezza e di contatto fisico, di carezze, di passare le dita fra i capelli… Posso, devo, fare come si devono fare le cose della vita. L’amore, la prima volta, fa male, perche’ e’ maschile. Ma imparero’
Non sono piu’ sola. Questo corpo ora appartiene a qualcuno. E quel qualcuno e’ Carlton Lewis.

I primi raggi del sole filtrano attraverso le tendine, apro lentamente gli occhi cercando di svegliarmi, con la testa torturata in una morsa di mal di testa. Sento Carlton russare accanto a me, i capelli scomposti sul cuscino, lo spinello spento ancora tra le dita. Mi fermo un attimo a guardarlo, mi tornano alla mente i ricordi confusi della sera prima. Decido di non pensarci, e butto svogliatamente le gambe a terra portandomi a sedere. Mi riavvio i capelli, cercando di svegliarmi, ma un senso di pesantezza mi pervade, ogni gesto richiede una logorante fatica. Alzandomi, noto con orrore una grossa chiazza di sangue colorare di rosso il sedile, all’altezza del bacino di Carlton. Non sapendo che fare, la copro con un cuscino, e mi fiondo sui sedili anteriori trovandovi un Gary semi appisolato al posto di guida, fumando svogliatamente uno spinello, e Kurt e Fox che si passano una birra, anche loro con un’aria ben poco sveglia.
“Tra quanto si riparte?”
domando, poggiando una mano sulla spalla di Gary per risvegliarlo dal suo torpore. Lui mi guarda, gli occhi cerchiati dalla nottataccia. “Tra pco, Mel…finiamo questa birra e ci mettiamo in moto. “Hai fretta?”
“No… chiedevo…” rispondo in un sussurro. Torno a sedermi al solito posto accanto a Carlton, apro totalmente la tendina in modo che il sole lo svegli. Carlton grugnisce, guardandomi con aria assonnata, poi si mette a sedere anche lui. Fox ci passa la birra, ne do un sorso mentre Gary accende il motore. Mi appoggio al finestrino, lo tiro giu’ del tutto e ci appoggio un braccio sopra, poggiandoci sopra la testa. Il vento mi scompiglia i capelli, all’epoca erano lunghi fino alle spalle. Torniamo a Londra sulle note di Iggy Pop. I am the passenger, I stay under glass, I look through my window so bright, I see the stars come out tonight, I see the bright and hollow sky over the city's ripped backsides, and everything looks good tonight...
Singing la la la la la.. lala la la, la la la la.. lala la la!



---------------------------------


Casper mi fece sedere sulle sue ginocchia, come faceva quand’ero bambina.
“La mia piccola Melissa sta diventando un’accanita fan del punk-rock, a-ha… cantilena divertito, fumando uno spinello. Gli sorrido, ancora un po’ intontita dalla sbornia del giorno prima.
“E con quel Carlton, com’e’ andata? L’ho notato che ti piace, sai…. aggiunge, con l’aria di chi la sa lunga. Oh, proprio di Carlton doveva parlare! Penso, mordendomi un labbro. L’unica cosa che mi ricordavo distintamente della sera prima era quel dolore cosi’ intenso e la chiazza di sangue che ho lasciato sui sedili posteriori, nonche’ la vergogna che mi ha attanagliato per tutto il viaggio di ritorno. Gli sfilo lo spinello sforzandomi di sorridere, senza dargli nessuna risposta. Casper mi osserva con un sorriso piegandosi un po’ a lato, con l’aria pensierosa e sognante che aveva quando, nella sua mente, stavano nascendo versi nuovi per nuove poesie…
“Oh, Melissa, Melissa….Viso di fiaba e spirito di precoce diavolo… il tempo che divori e’ sottratto al piacere futuro, decapita gli angeli che tu distruggi… Gli angeli combattono, gli angeli piangono, gli angeli cantano e gli angeli muoiono, sconvolti dalla tua bellezza…”
sussurra, mentre io, con lo spinello tra l’indice e il medio, mi appisolo sulla sua spalla, rifugio sicuro.

Edited by LARA__CROFT - 12/11/2009, 19:21
 
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view post Posted on 8/11/2009, 02:48
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Archeologa/Ricercatrice/Avventuriera

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Cap. 5
CARLTON
( Il ragazzo della prima volta di Melissa col quale fa quasi coppia fissa dopo averlo conosciuto tra i 12 e i 13 anni e che morira' quando Melissa ha 16 anni per overdose)





Si avvicina il fine settimana, ed eccolo di nuovo in astinenza. Vuole la sua droga. Gli sono rimaste solo un paio di pillole. Ingoia tutte in un botto . E' l'ultima scatola che ha. Su una vecchia ricetta che ha gia' contraffatto cambiando la data, ora modifica la durata della prescrizione delle dosi.
"Vieni, andiamo in centro, in farmacia, vado a prendere le mie pillole, accompagnami " mi dice, con uno sguardo speranzoso. Lo seguo.
Prima farmacia, primo rifiuto. Seconda, terza, quarta, stessa storia. Questo vagare senza meta mi sta uccidendo. Mi fa pena, mi fa tenerezza, vorrei poter fare qualcosa per lui, vorrei prenderlo per i capelli e obbligarlo a smettere, vorrei che mi ascoltasse, vorrei, vorrei....
La gente ci passa accanto rivolgendoci sguardi strani, guardano una ragazzina di sedici anni nascosta dal cappuccio di una felpa grigia ormai consunta, le mani dallo smalto rovinato e mangiucchiato nascoste nelle tasche, la schiena curva, lo sguardo basso, i capelli a coprirle la faccia, un paio di jeans e delle vecchie Converse nere, sporche e bucate. La guardano tentare di tenere il passo ad un ragazzo poco piu' grande di lei, ma dal viso di uomo. Un ragazzo con gli occhi cerchiati dalle notti insonni e dall' ansia febbrile della ricerca instancabile di droga, le scarpe slacciate, lo sguardo disperato, il passo trascinato e stanco, in un vagabondare quasi surreale.
Loro sanno che possono entrare in una farmacia e chiedere un' aspirina, perche' loro hanno ricette regolari, pulite. Carlton no. Quella che Carlton tiene in mano e' sporca, mal contraffatta, spiegazzata, disperata.
Ogni volta entro con lui senza avvicinarmi al bancone, coperta dal mio vigliacco cappuccio, ma non basta a fare in modo che la gente non mi noti, capiscono che sono con lui. Un drogato. Un drogato esasperato. Il colletto della maglia rotto, a formare un' inaspettato scollo a V. Il volto distrutto, la sua nuda disperazione... E di me, e di me cosa penseranno? Se solo ne avessi la forza, direi: "Aiutatelo, sta male. Non riesco piu' ad aiutarlo, fatelo voi per me"
Ma nessuno lo capisce. Tutti si rifiutano di servirlo.
Comincia ad innervosirsi.
"Cazzo, cazzo, cazzo! Non e' possibile, perche' non mi date quelle fottute pastiglie?! Ne ho bisogno, ne ho un fottuto bisogno, porca troia!"
Inizia il discorso con rabbia, lo finisce quasi piagnucolando. Alla quinta farmacia, gli viene un'idea.
"Tieni, fai tu: hai una faccia piu' pulita della mia, di te si fideranno"
Lo guardo, poco convinta. "Che cazzo vuoi che gli dica?! Non sto male, si capisce che non e' per me quella roba"
Gli occhi di Carlton si trasformano in una fessura intrisa di veleno. Mi si avvicina, i nostri visi quasi sfiorano mentre lui mi fissa con uno sguardo carico di disperata ferocia.
"Dì che e' per il tuo ragazzo, che sta male, che ne ha bisogno! Inventati qualcosa, cazzo, devi trovare un modo!"
Mi sento girare la testa. Melissa intrappolata. Vorrei non andare, vorrei mollare tutto, ma per amor suo mi abbasso anche a questo.
Ci vado. Mi ritrovo davanti alla farmacista, dietro ai suoi occhialetti esamina quel disgraziato foglio, arricciando le labbra, quasi disgustata.
"Per che cos'e'? Cos'ha esattamente, il tuo amico?"
"E' malato, molto malato, non so esattamente cos'abbia... sta male, soffre, ne ha un assoluto bisogno!"
Insisto io, guardandola con occhi disperati. Ma lei non fa una piega.
"Spiacente, signorina, la ricetta non e' chiara, non possiamo darle nulla"

Carlton mi aspetta fuori, fumando nervosamente una sigaretta. Mi guarda speranzoso, poi il suo sguardo si rabbuia vedendomi uscire a mani vuote.
Mi sta usando. Me ne rendo conto. E' la prima volta che mi coinvolge così tanto nelle sue storie di droga. Di norma, cerca di tenermene in disparte, mi protegge, nel suo malato modo. Ma ora la disperazione e' troppa, l' astinenza troppo dura da sopportare, tutto si sacrifica per la droga, tutto si sacrifica.
Camminiamo piu' di tre ore, girovaghiamo per Londra, ho un buco sulla suola delle scarpe, mi fanno male i piedi, c'e' un vento freddo che mi gela la pelle e mi fa stringere nella felpa in cerca di un po' di calore. Non una farmacia che abbia accettato. Entravo sempre io, adesso. Lui aspettava fuori, finendo tutte le sigarette.
Dopo l'ennesimo rifiuto, non ne posso piu'...
"Carl, ascolta, nessuno mi dara' le medicine, non sono coglioni, lo capiscono che e' contraffatta la ricetta"
"No Mel, aspetta! Non so che altro fare, non so che altro fare!"
E' disperato, ma io lo sono anche di piu'. Mi accascio a terra, addossata al muro, mi prendo la testa fra le mani, non so piu' che fare. Vorrei solo dormire. Carlton rimane la' fermo, senza dire nulla.
Silenzio.
Lo vedo armeggiare nelle tasche, ne tira fuori una siringa. Alzo lo sguardo, improvvisamente attenta.......

Edited by LARA__CROFT - 12/11/2009, 19:22
 
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view post Posted on 13/12/2010, 02:06
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Sacerdotessa, conoscitrice di dottrine religiose e mistiche, ritualistiche esoteriche

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Non ho altre pagine del diario di Mel scritto da Jessica, quindi mi tocca chiudere anche questo topic..
Peccato pure per sto diario
 
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7 replies since 20/9/2007, 11:24   603 views
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